Io sono per il no. Fosse per me, io non li vorrei neanche vicino al campo (coach, team, familiari).
Quindi basta al coach in campo, al coach agli angoli, o ai coach nascosti.
Basta anche ai continui sguardi rivolti dal giocatore al suo angolo: sembrano tutti cuccioli bisognosi di conferme. Mi sa di “appiccicato” e di poca aria…un po’ come il quadro di Klimt…
Esiste una cosa che si chiama “allenamento“: in allenamento si allena proprio la capacità della persona di essere autonoma. Il coach deve fornire gli strumenti; poi, però, l’atleta deve camminare da solo!
Se c’è sempre qualcuno, in campo o vicino, a cui chiedere aiuto, consiglio, come fai a crescere?
E se va bene o se va male, soprattutto, poi, il merito di chi è? Del giocatore o del Coach?
Trovo questa “vicinanza” estremamente depotenziante per l’atleta!
E poi perchè alle donne il coach in campo sì, e agli uomini no?
Il discorso vale per tutte le relazioni: atleta e allenatore, psicologo e cliente, medico e malato, genitori e figli…